Il tempo dell’attesa: l’intervista alla dott.ssa Cristina Cenci

Il tempo dell'attesa in Italia tende a dilatarsi - VediamociChiara

Sono i costumi sociali e le abitudini culturali a indicare il tempo dell’attesa “giusto” per la maternità…

Storie come quella di Apple e Facebook che hanno proposto alle proprie dipendenti in carriera, di congelare gli ovuli per ritardare la maternità, consentendo loro di affrontarla in una fase meno impegnativa per l’azienda, ci portano a fare alcune riflessioni importanti sul tema della maternità e della fertilità e su quello che abbiamo chiamato il tempo dell’attesa.

Con questo obiettivo abbiamo intervistato la dott.ssa Cristina Cenci, antropologa ideatrice e promotrice dell’istituto di ricerca Body&Society LAB e del Center for Digital Health Humanities e studiosa dei social media, attraverso i quali analizza le conversazioni online per capire vissuti, bisogni, rappresentazioni sociali associate alla salute e alla malattia.

La fertilità della donna è massima attorno ai 25 anni ed è per questo che essere madri da giovani è più semplice e naturale. Secondo lei il contesto sociale attuale aiuta a rendere possibile questa prospettiva?

La fertilità e la maternità non sono mai state un fenomeno puramente naturale. Sono governate più dai bisogni dei gruppi sociali e dalle norme culturali, che dai processi biologici. Per rispondere quindi questa domanda direi che il contesto attuale è molto lontano dal valorizzare la fertilità massima. Non è strano. Il sociale più che il corpo costruisce i tempi “giusti” per la maternità e la paternità. Nelle società occidentali contemporanee l’età del primo figlio si situa sempre più nei trenta che nei venti anni.

Questo per motivi molto diversi e anche molto positivi come l’accesso delle donne al mercato del lavoro, la dissociazione tra sessualità e riproduzione, un processo di costruzione della propria identità di donna più libero e flessibile, sganciato dal ruolo tradizionale di madre e di moglie. In negativo, il rischio è che sembri sempre “troppo presto” per avere un figlio e si finisca per non trovare il giusto equilibrio tra tempi del sociale e delle identità e tempi del corpo. Così come oggi è diventato quasi un tabù, oggetto di condanna sociale, la scelta di chi ha un figlio in età molto giovane.

 

“Essere genitori in età più avanzata conduce spesso a famiglie con un solo figlio. In genere si impiega più tempo per concepire un bimbo e, in molti casi, si deve ricorrere a cure per l’infertilità. In questo contesto come cambiano, a suo avviso, la percezione ed il vissuto di quello che abbiamo chiamato il tempo dell’attesa?

Molti studi internazionali dimostrano che non c’è un nesso causale diretto tra la maternità ritardata e il figlio unico. Ad esempio in Francia o nei paesi scandinavi in cui il primo figlio nasce circa un decennio dopo rispetto al passato, il tasso di fertilità è molto più alto e non si rinuncia al secondo o al terzo figlio. Il problema sta proprio nella diversa percezione e nel vissuto del tempo dell’attesa che in Italia rischia di essere molto diverso e porta a limitarsi al figlio unico. Non sono tanto gli aspetti psicologici, ma quelli sociali e culturali a costruire in modo diverso il tempo dell’attesa. In Francia all’inizio dell’anno i titoli dei giornali glorificano il tasso di fertilità, i bambini sono considerati un bene collettivo da valorizzare, con un impegno importante dello Stato nell’offerta educativa.

Nei paesi scandinavi, l’accesso al mercato del lavoro è più facile e protetto e facilita il consolidarsi di un senso di sicurezza importante per immaginare un futuro per i propri figli. In Italia è molto diverso. I titoli dei giornali valorizzano molto più il PIL e gli indicatori economici, non c’è un orizzonte condiviso di accoglienza. Poi per gli uomini, ma soprattutto per le donne, l’accesso al mercato del lavoro è difficile, ritardato, precario.

Spesso l’arrivo del primo figlio rappresenta un terreno di riaffermazione e riappropriazione di uno spazio decisionale, che nasce però dalla frustrazione e non dalla costruzione progressiva di un’identità e un ruolo solido e rassicurante. In questo modo, però, si rischia di dilatare troppo il tempo dell’attesa si superare la soglia critica dei 35 anni. Non bastano le informazioni mediche, occorre costruire un orizzonte condiviso di fiducia per accelerare e anticipare la scelta del giusto tempo per un figlio.

 

I nostri figli sono il nostro futuro. A suo avviso, che conseguenze potrebbe avere sulla nostra società il fatto che i figli sono sempre più unici e i genitori sempre più anziani?

Tutti gli studiosi concordano sulla scarsa sostenibilità di un sistema sociale basato sul figlio unico e su genitori troppo anziani. Uno scenario che impoverisce fortemente le relazioni familiari e i sistemi economici e sociali.

 

Nella società occidentale il momento giusto per avere un bimbo sembra non arrivare mai e si tende a posticipare sempre più la “messa in cantiere” del primo figlio, come se la maternità e la famiglia fossero bisogni meno importanti di altri. A suo avviso quali sono le ragioni di questo slittamento, che ha condotto il nostro Governo a varare addirittura un Piano Nazionale per la Fertilità?

Anche se il posticipare la nascita del primo figlio è comune a tutti i paesi occidentali, non sempre questo porta a un declino della fertilità. La ritardata maternità si connette al cambiamento del ruolo femminile e all’accesso in massa delle donne al mercato del lavoro, questo però non spiega la diminuzione del numero dei figli.

Paradossalmente i tassi di fertilità in paesi con un’occupazione femminile più alta che da noi sono maggiori nei nostri. Occorre quindi lavorare su dimensioni importanti e non bastano gli incentivi economici. Sicuramente è importante costruire un orizzonte di fiducia sia rispetto al presente che al futuro così come favorire la costruzione di identità di genere più complesse e articolate, di nuove madri e nuovi padri, pronti a condividere di più non solo la scelta del figlio ma anche la crescita e le esperienze quotidiane. Trovo che in Italia soprattutto, benché la scelta sia sempre più condivisa, così come i principi principali educativi, l’esperienza e i bisogni e i territori dei figli siano ancora un dominio troppo esclusivo delle madri.

 

L’infertilità non riguarda solo la donna, come erroneamente si è ritenuto da sempre, ma riguarda tanto la coppia, quanto i suoi componenti e i recenti studi rivelano che l’infertilità maschile è frequente quanto quella femminile. Come sta cambiando il modo di reagire degli uomini di fronte a questo problema?

L’infertilità maschile è ancora un tabù, perché è associata e vissuta come impotenza, e anche perché incide meno il fattore età. La transizione a sempre nuovi ruoli per la donna e a una sempre maggiore parità di genere, genera ancora ambivalenze e porta a “colpevolizzare” la donna per la ritardata maternità

 

Viviamo in una realtà condizionata più da “quanto si dice in giro”, che da “quanto è vero e scientificamente provato”. Con questi presupposti, come si può diffondere un’informazione più corretta riguardo a temi come il tempo dell’attesa, così delicati e complessi?

Mi piace ripetere spesso che ritengo il social fact checking importante quanto il fact checking. Ribalterei la prospettiva. L’informazione dovrebbe tenere conto di “quanto si dice in giro” per sperare di essere ascoltata. Come abbiamo visto, le componenti sociali e culturali sono importanti nelle scelte di maternità. Bisogna trovare il giusto linguaggio e le metafore adeguate per comunicare questi temi, partendo dall’ascolto di quello che si condivide in rete, un osservatorio fondamentale delle esigenze e delle rappresentazioni collettive.

 

Le risposte sono a cura della Dott.ssa Cristina Cenci Antropologa, ideatrice e promotrice dell’istituto di ricerca Body&Society LAB e del Center for Digital Health Humanities
Esperta di social media per Redazione VediamociChiara ©riproduzione riservata

Take Home Message
Sono i costumi sociali e le abitudini culturali a indicare il tempo dell’attesa giusto per la maternità e avere una famiglia solo dopo i 30 anni non è sinonimo di famiglie con un figlio unico; anche qui vi sono alcuni fattori condizionanti come quelli di natura economica, come il lavoro precario o l’accesso ritardato al mondo del lavoro e di natura strategica per cui i bambini non vengono vissuti come un bene collettivo prezioso per il futuro della società.

Tempo di lettura: 2 minuti e 10 secondi

Ultimo aggiornamento: 11 agosto 2024

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5 risposte

  1. Molto interessante! Non ci si rende mai davvero conto di quando siamo condizionati dal modo di pensare e da quanto leggiamo sui giornali. In Italia poi mi sembra che ci sia il “”culto della depressione”” sulla stampa e così anche quando le cose vanno meglio, sembra sempre che vadano peggio. Io ho 32 anni e vorrei avere un figlio, ma quando ne parlo con le amiche e con gli amici mi guardano come se fossi una “”pazza temeraria””. Chissà se cambiando la cultura della depressione che ci avvolge, non sarò più guardata così?

  2. Hai ragione Valeria, io ho avuto Sara quando avevo solo 21 anni e sono sempre stata considerata una “”sciamannata”” ora che ne ho 45 e mia figlia 24 sembriamo 2 sorelle e anche se tutta la mia famiglia mi diceva di abortire o di dare Sara in adozione, sono sicura che mia è stata la scelta migliore.

  3. Io non ho avuto il coraggio di Ines e quando mi sono trovata nelle sue condizioni a 23 anni ho abortito (una relazione occasionale e un piccolo intervento operatorio che mi aveva costretto ad un’overdose di farmaci, mi hanno convinto che non era una buona idea portare avanti quella gravidanza) e adesso combatto con la PMA per avere il mio primo figlio a 40 anni. Sono due anni che ci provo e sono un po’ scoraggiata. E le considerazioni della dottoressa Cenci sono assolutamente corrette, in Italia non siamo aiutate a fare figli.

  4. Cara Marzia non sono d’accordo con te, le donne italiane, se sono dipendenti, sono “”””STRA-AIUTATE””””, stanno fuori dal mondo del lavoro per anni e rientrano nel posto dove stavano prima come se nulla fosse, ho un’amica insegnante che è stata fuori dalla scuola per 5 anni nel corso delle sue 2 gravidanze: uno scandalo. Io sono una libero professionista e non riesco a fare un figlio, sono sempre in giro per lavoro e non posso permettermi di stare 5 anni a casa, ma neanche i classici 6 mesi…dunque penso che sia la nostra categoria o comunque quella di chi svolge un lavoro non garantito da sindacati e da leggi specifiche, quella che ha più bisogno di tutele.

  5. Mi piace questo modo di guardare la nostra situazione e trovo valide e interessanti tutte le considerazioni. Anche se temo che in Italia sia difficile attuare una politica diversa nei confronti della maternità, troppe donne ne hanno approfittato e ora c’è poca fiducia e forse anche poco interesse. Chissà se un Presidente del Consiglio giovane come Matteo ci aiuterà a rimettere a posto le cose…

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