Perché siamo cattivi? Alcuni solo un pochino, altri intrinsecamente malvagi?
“Non c’è scusa nell’essere cattivi” diceva Charles Baudelaire, e più di recenteAlda Merini, “La cattiveria è degli sciocchi, di quelli che non hanno ancora capito che non vivremo in eterno”. Ma perché siamo cattivi?
I “malati” di cattiveria
Ciò di cui parliamo va dalle piccole “carognate” con l’amica, con il collega d’ufficio, sino ai grandi eventi criminali di cui purtroppo la storia, per documentarli, è spettatrice passiva.
La domanda, dopo decenni di studi in ambito biologico e psicologico, è giunta a non avere una risposta unanime. I “malati” di cattiveria secondo recenti ricerche, presentano alcune caratteristiche genetiche legate al metabolismo di neurotrasmettitori cerebrali, che possono predisporre allo sviluppo di comportamenti e di atti antisociali e criminali. Già Sigmund Freud pur non disponendo delle attuali conoscenze della genetica molecolare, sottolineava il peso dei fattori costituzionali alla base di alcuni disturbi emotivi.
L’influenza dell’ambiente
Quando è presente una predisposizione, oggi sappiamo che la probabilità di avere una condotta cattiva e/o crudele, è legata direttamente all’ambiente culturale e affettivo nel quale la persona è cresciuta ed è stata allevata o ad alcuni ideali del gruppo di riferimento che ha scelto di abbracciare.
Quando i due fattori interagiscono
Attualmente l’unica certezza che abbiamo è data dalla interazione tra i fattori genetici e quelli ambientali che insieme concorrono nel determinare il comportamento di un individuo. Pertanto il comportarsi da ”buoni “ o da “cattivi” dipende non solo dalle già citate componenti genetiche e dalla storia biografica della persona, ma anche dalla concomitanza di alcune situazioni (il gruppo, la valutazione del contesto, ordini ricevuti da una autorità) in cui il soggetto può trovarsi e che influenzeranno il suo comportamento; tanto più forte sarà l’influenza quanto più vulnerabile sarà la personalità del soggetto.
Sviluppare e coltivare l’empatia
Sia la psicologia che le neuroscienze sono concordi nel valutare il ruolo svolto dalla empatia e dalla assenza di empatia come fattore principale nei comportamenti della persona. La capacità di immedesimarsi in un’altra persona (empatia) e di capirne i sentimenti e le eventuali sofferenze è sia legata alla attività di particolari aree cerebrali ma può essere coltivata o lasciata azzerare da fattori esterni.
Quando valutiamo le piccole angherie quotidiane come scontate, quando appariamo distratti di fronte a comportamenti aggressivi o eticamente scorretti e che provocano danni a qualcun’altro, ecco che questi piccoli cedimenti, progressivamente, hanno il potere di scalfire la nostra empatia. Per evitare di compromettere la nostra capacità empatica dobbiamo praticarla attraverso la socievolezza, il tentare di alleviare la sofferenza altrui, la cura delle relazioni umane e il rispetto dell’altro.
Note di letture
- Freud Sigmund: Lutto e melanconia in Metapsicologia. Boringhieri, Torino (1976)
- Stanley Milgram: Obbedienza all’autorità. Uno sguardo sperimentale. Einaudi, Roma (2003)
Dott.ssa Patrizia Pezzella Psicologa, psicoterapeuta, perfezionata in Sessuologia clinica per Redazione VediamociChiara
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Take Home Message
Riflettiamo sulla cattiveria umana in psicologia, oggi che ricorre il giorno della memoria.
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